Abbiamo parlato, in uno dei precedenti articoli, di come scegliere un corso di vela e del motivo per cui è sempre meglio imparare sulle derive.
Il cabinato permette di viaggiare, di vivere il mare in tutti i suoi aspetti, il giorno e la notte ma queste barche, di qualsiasi modello si parli, sono pesanti e di conseguenza molto lente nei movimenti. Su un cabinato è difficile rendersi conto delle conseguenze provocate dallo spostamento del proprio peso, da piccoli movimenti del timone o imparare le regolazioni di fino delle vele. Per capire se cazzare la randa è stata una buona mossa dovremo ad esempio percorrere vari metri e ce ne accorderemo soltanto osservando gli strumenti.
Al contrario in una deriva è tutto immediato: ogni singolo centimetro di scotta fa la differenza come ogni impercettibile movimento del timone. Un banale errore nella distribuzione di un kg di peso può causare la scuffia!
Per questo motivo, imparare le basi della vela su una deriva è l’unico modo per comprendere davvero il vento e le vele.
Le derive però non sono tutte uguali e, a tale proposito, riporto l’interessante commento di Silvia Guerra, titolare della scuola di vela Centro Velico Naregno, e l’articolo originale, usciti nel giornale BOLINA.
Elogio della deriva ma quella moderna
Vado in barca da sempre (derive e cabinati), ma da quando ho diciotto anni mi sono dedicata principalmente al windsurf e al catamarano; dal 1990, con Marco Biagini, ho fondato il Centro velico Naregno, una scuola di derive, catamarani e windsurf all’isola D’Elba.
In riferimento all’articolo scritto da Fabio Fiori “Elogio della deriva” e pubblicato sul numero di maggio di BOLINA, colgo l’occasione per rimarcare ed evidenziare le parole dell’autore: “la deriva è davvero l’unico modo per acquisire sensibilità con la barca, il vento e il mare”. È inoltre vero che in questo periodo di crisi, dà l’opportunità di fare vela sgravandosi da grossi costi di ormeggio, manutenzione e carburante.
Colgo l’opportunità di questo mio intervento anche per sottolineare una “svolta” della deriva, della quale pochi parlano. Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un cambiamento epocale nei mezzi per praticare sport: dagli sci, alle biciclette, oggi è più facile praticare una disciplina rispetto anche solo agli Anni 90. Questo cambiamento si è verificato anche in ambito velico: ultimamente, per esempio, si impara ad andare in windsurf praticamente senza più cadere, grazie alle nuove tavole che agevolano moltissimo la stabilità. La stessa cosa accade per la deriva, soprattutto in ambito didattico. Al giorno d’oggi esistono barche estremamente più facili e divertenti rispetto ai vecchi Flying Junior, Caravelle e Vaurien, per non parlare dell’Optimist, imbarcazione ormai superata che spesso demotiva i più piccoli dall’andare a vela. Non è un caso che su circa trecento bambini a cui facciamo scuola ogni stagione, l’80 per cento per l’approccio al mare preferisce i nuovi modelli come Rs Vision, Q.ba, Tera, Laser Pico.
Alla luce di queste considerazioni sarebbe opportuno divulgare nelle scuole di vela l’importanza dell’utilizzo di queste nuove imbarcazioni di più facile gestione per l’armo e il trasporto.
Si tratta di mezzi che permettono agli adulti di non dover affrontare troppe difficoltà motorie e logistiche, e ai bambini di imparare ad andare a vela in modo più giocoso, piuttosto che tecnico e agonistico.
SILVIA GUERRA
Elogio della deriva
Ideale per l’iniziazione, ma non solo. Come la bicicletta una piccola barca a vela regala una dimensione più intima del navigare, oltretutto ad impatto energetico zero.
La deriva è la vela alla massima potenza. Perché solo la deriva ti fa vivere insieme tutte le emozioni regalate da questa pratica: silenzio, autonomia, indipendenza, libertà.
Alcuni preferiscono le forme classiche del Dinghy o del Beccaccino, quelle vintage del Flying Junior o del Flying Dutchman, quelle olimpiche del 470 o del Laser.
Su tutte si sentono meglio che su qualsiasi cabinato le onde e i venti. Derive da usare non solo per fare regate. Anzi! Vissute prima di tutto come esercizio fisico e spirituale, pratica zen, semplice piacere per la carne e la mente.
“Innamorati del mare” li chiamamava Mario Fazio nel 1948, “che partono con la loro barchetta, con una tela da campeggio arrotolata, e fanno di ogni spiaggia la propria casa, appagando un innato spirito di libertà e avventura”. Innamorati che vanno con una deriva, la più piccola e semplice delle vele.
Tanti anni fa un vecchio pescatore mi disse “lontano dall’acqua, lontano dal mare”, vedendomi rientrare dopo il tramonto con una datata Alpa Esse. Sono stati necessari anni e miglia per capire il significato di quell’aforisma, per capire che sulle grandi barche il mare diventa un algido spazio geografico e non un vivissimo luogo esperenziale. Solo navigando su piccole barche il piede diventa marino, cioè leggero, rapido e sicuro.
Quello che ci porta in sicurezza da prua a poppa, da sopravento a sottovento, che ci permette di seguire tranquillamente il primo comandamento di bordo: “una mano per sé e una per la barca”.
Sulla deriva si impara a sentire il vento e le onde, ad anticiparne le bizzarrie, a prevederne i cambiamenti. Non servono bussole, anemometri o diavolerie elettroniche, bastano al più spartani filetti sulle vele e sulle sartie. Attenzione e sensibilità si acuiscono, e l’estensione corporea, come la chiamano gli antropologi, si completa. Braccia e mani si fanno barra e timone, scotta e randa. Un tutt’uno che ci fa sentire la barca in ogni sua parte, in ogni suo elemento.
Se il filosofo Ivan Illich, già negli anni Settanta del Novecento, aveva intuito le potenzialità ecologiche e rivoluzionarie delle due ruote, altrettanto cogliamo noi oggi della deriva. Perché questa barca, per storia, tecnologia e filosofia è l’esatto equivalente della bicicletta, e con essa divide purtroppo decenni di prevaricazioni consumistiche.
Il delirio petrolifero dell’ultimo mezzo secolo ha infatti pervaso anche le pratiche marinaresche, libertarie e ludiche, almeno nell’accezione diportistica. Precisando che parliamo del “motoscafismo”, in tutte le sue forme, e dell’altrettanto deleterio “gigantismo velico”. La deriva invece libera dalle schiavitù economiche, d’acquisto, manutenzione e ormeggio, e offre la più preziosa ricchezza di questi anni: il tempo. Meno ore di lavoro per guadagnare e spendere, più ore di mare per bordeggiare e planare. Perciò speriamo che la crisi possa rivelarsi un’occasione per far ritornare bici e derive regine delle strade e delle coste. Attenzione senza alcuna nostalgia passatista, ma al contrario in una visione assolutamente moderna, cioè insieme tecnologica ed ecologia, certi che anche il carbonio come il mogano, il dacron come la cotonina, abbiano il loro fascino se mossi dal vento, la più libera e genuina delle energie.
Infine, sfatando uno dei tanti falsi luoghi comuni della nautica, bisogna evidenziare che la deriva, ancora oggi come la bici, è uno sport o, per meglio dire, uno svago per tutte le età. Quattro ore al timone, così come quattro ore in sella, fanno assolutamente bene alla salute, riattivando una fisicità indispensabile anche al pensiero.
Con una deriva è più semplice scoprire il tao della vela.
FABIO FIORI numero di maggio di BOLINA
Alla luce di tutte queste considerazioni perciò dovremmo aggiungere ai parametri per scegliere una buona scuola di vela anche la tipologia delle barche. Preferire modelli nuovi significa imparare più in fretta e con più gusto!
Sarete sempre in tempo per passare a barche storiche e più complesse ma forse è ora di mandare in pensione qualche modello, ormai ampiamente superato…
Cosa ne pensate? Raccontateci le vostre esperienze!